Recensione del romanzo Chie-Chan e io di Banana Yoshimoto, dove l’autrice esprime tutto il suo amore per l’Italia e le emozioni che le suscita il nostro Paese.

Una storia di amicizia profonda tra due donne diversissime, che però dovranno fare i conti con un segreto dal passato e un amore appena sbocciato con un soggetto a dir poco singolare.

Per me è stata una completa delusione e più avanti spiegherò il perché.

Chie-chan-e-io-di-banana-yoshimoto

Titolo: Chie-Chan e io (orig. Chiechan to watashi)

Autore: Banana Yoshimoto

Traduttore: Giorgio Amitrano

Editore: Feltrinelli

Collana: I Canguri

Genere: Narrativa contemporanea

Anno di Edizione: 2008 (prima pub. 2007)

Pagine: 142 pp., Brossura

ISBN: 9788807701962

Voto: 📕/5

Trama di Chie-Chan e io di Banana Yoshimoto

Kaori Chie-Chan non potrebbero essere più diverse: la prima è una donna matura, single e indipendente, la cui carriera al negozio di sua zia la porta a fare spesso la spola fra Italia e Giappone.

Chie-Chan, invece, è più giovane e insicura, ha vissuto sempre all’ombra di sua madre e per questo alla sua morte decide di vivere dalla cugina, Kaori per l’appunto, occupandosi della casa, cucina compresa.

Contro ogni previsione, fra le due si instaura una profonda amicizia che le rende quasi interdipendenti.

A destabilizzare il loro equilibrio idilliaco, che prosegue da anni senza alcun problema, saranno un segreto pesante dal passato di una e un amore che preme per sbocciare nella vita dell’altra.

Parere Personale

Chie-Chan e io è il terzo romanzo che leggo della Yoshimoto e comincio ad avere la sgradevole sensazione che si tratti di un’autrice sopravvalutata: ripercorrendo a memoria anche gli altri libri, sembrano tornare sempre le stesse tematiche, gli stessi comportamenti dei personaggi, la stessa sensazione di vivere una storia sospesa, che alla fine non esplode mai, finendo in modo un po’ aperto.

Fra i tre, però, Chie-Chan e io lo considero il peggiore per diverse ragioni.

1. Il romanzo è stato sponsorizzato come elogio all’Italia, ma credo che l’intento non sia affatto riuscito: le descrizioni del nostro Paese risultano molto generiche e banali, come se fossero state scopiazzate dai siti di viaggio.

Senza poi contare i ridicoli pregiudizi che evidentemente ha l’autrice nei nostri confronti: come la criminalità onnipresente nelle nostre strade, tanto che non si può uscire di casa senza essere aggrediti da gang losche, oppure i cani antidroga che ti fissano all’aeroporto, degno di un qualsiasi film americano.

Un altro aspetto mal riuscito dell’elogio, è il tentativo di inserire l’argomento Italia ovunque, rendendo le situazioni surreali e la storia poco credibile.

2. Dalla narrazione si evince che Kaori lavora al negozio della zia, dove si vende merce d’importazione, ovvero oggetti da collezione, propinati generalmente ad una clientela ricca che vuole darsi un tono.

Come la protagonista si procura la merce credo che sia proprio un metodo illegale: lei si reca in Italia, acquista da privato, spedisce e rivende. Non lo fa a nome dell’azienda, perché è lei a scegliere i prodotti in base ai sentimenti, offrendo alla zia sempre qualcosa di nuovo e particolare.

Comunque su questo punto mi è rimasto il dubbio: potrei semplicemente aver capito male io oppure l’autrice non ha idea di come funzioni il commercio internazionale.

3. Sempre a proposito di Kaori, il suo rapporto con la cugina Chie-Chan risulta a tratti controverso e inquietante: lei è letteralmente ossessionata da questa ragazza, ogni occasione è buona per parlarne e inserirla in qualsiasi conversazione, anche quando non c’entra niente.

Senza contare la sua ansia nel saperla felice lontano da lei, sperando in cuor suo che non raggiunga mai la completa emancipazione.

L’autrice decide di giustificare il tutto paragonando questa eccessiva preoccupazione a quella di un genitore qualsiasi quando il figlio diventa adulto, ma a me non convince del tutto, anzi… Forse l’ho trovato ancora più disturbante.

4. Ad un certo punto della storia si parla di una donna affetta da depressione port partum, che si è suicidata dopo aver dato alla luce il suo bambino frutto di una violenza sessuale.

La protagonista Kaori commenta il gesto definendolo egoista e senza amore nei confronti del figlio rimasto solo. A me sa un po’ di victim blaming.

La questione viene quindi liquidata in questo modo, che ho trovato a dir poco superficiale e insensibile, dal momento che la donna è stata messa sullo stesso piano del suo aggressore, nonché padre biologico del bambino.

5. Ancora una volta devo sottolineare l’incapacità della Yoshimoto di descrivere una storia d’amore coinvolgente e carica di affetto.

Ricordo, infatti, che in Kitchen il rapporto tra gli innamorati appariva insipido e con comportamenti senza senso, che non aiutavano ad empatizzare con la situazione.

Qui è ancora peggio, perché l’autrice sembra voglia far passare per amorevole una serie di comportamenti soffocanti, possessivi e narcisisti da parte di Shinoda, come la volontà di fare terra bruciata intorno alla sua amata per gelosia, un piano che esprime candidamente fin dal primo appuntamento.

Insomma, dopo tutte queste osservazioni non riesco proprio a comprendere i tanti elogi che ho letto nel web. Personalmente, non lo consiglierei…

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